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Franco Buffoni

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L'intervista è a cura di Roberto Maggiani e Giuliano Brenna (Roma, ottobre 2008) che si sono presentati a casa di Franco Buffoni, da lui gentilmente invitati, con un piccolo registratore. Nonostante qualche domanda fosse stata preparata, è nato un dialogo molto interessante in cui Buffoni parla di sé, della sua scrittura e quindi, inevitabilmente, con lucidità intellettuale, esprime alcune sue posizioni in relazione anche a Stato e Chiesa. Vi sono anticipazioni della sua nuova raccolta di poesie intitolata "Roma" che uscirà nel 2009 per Guanda. Chiunque voglia rivolgere domande a Franco Buffoni, può farlo inviandole alla redazione de larecherche.it.

Legenda: F. - Franco Buffoni, R. - Roberto Maggiani, G. - Giuliano Brenna

*

R. Franco Buffoni. Non sei molto conosciuto dal grande pubblico, anch’io ho avuto modo di conoscere la tua scrittura da non molto tempo, leggendo alcune tue opere, sei uno scrittore non molto evidente, un po’ nascosto, ma che sa catturare subito il lettore che ignaro passa sulle tue pagine.

F. Appunto, ed è quello che a me interessa perché essere troppo conosciuti finisce coll’essere pericoloso e a volte controproducente… Come molti non mancano di farmi capire: rompo già abbastanza le scatole così. Comunque, capisco il punto: se non vai in televisione alle nove della mattina e alle otto di sera, sei comunque un anonimo per il grande pubblico. Si tratta anche di scelte. Ricordo che anni fa quando uscì Suora carmelitana (1997) rifiutai di andare al Costanzo Show: lo ritenevo pericoloso. Così ho continuato, con una certa coerenza, e mi trovo benissimo.

R. Ci diresti chi è Franco Buffoni?

F. Ho insegnato, ho fatto il professore in università per oltre trent’anni, in varie università, ho insegnato letteratura inglese e letteratura comparata a Trieste, Torino, Cassino, e ancora a Parma e a Bergamo. Attualmente a Milano IULM insegno Teoria e Storia della Traduzione Letteraria. E poi scrivo poesia, ho cominciato a pubblicare tardi, verso i trent’anni, non subito, infatti le prime poesie mie escono nel 1978 su “Paragone”, nel ‘79 da Guanda. Ero già maturo, compio adesso i trent’anni di poesia; non ho in giro scheletri nell’armadio, libretti giovanili di cui magari vergognarmi: tutto quello che ho pubblicato l’ho pubblicato da adulto. Dal punto di vista professionale è stato tutto piuttosto lineare. Avendo studiato lingue sono stato molto all’estero e questo in un certo senso ha ritardato il mio inserimento nella società letteraria italiana, almeno di dieci anni… furono dieci anni molto utili per i miei coetanei che ebbero tutti un esordio precoce negli anni Settanta. Io in quegli anni ero in Scozia per il dottorato e poi a Parigi e in Germania. Praticamente sono arrivate dieci anni dopo, le mie pubblicazioni e anche le mie frequentazioni con la società letteraria italiana. Per contro il mio esordio è molto precoce in campo accademico: divenni subito ricercatore e poi in pochi anni professore associato e ordinario. Diciamo che mi sono fatto le ossa con la scrittura saggistica e anche adesso traggo vantaggio da questa severissima formazione iniziale. Questa formazione molto severa, molto poco italiana, mi ha portato ad avere un atteggiamento filosofico eccentrico rispetto alla nostra tradizione. In sintesi posso dire che la mia è una formazione filosofica di tipo analitico, inglese, ecco.

R. Praticamente rispondi anche alla domanda successiva che leggo: da dove ha origine la tua scrittura poetica? Che cosa successe prima del 1979, quando esordisti in poesia con la raccolta “Nell’acqua degli occhi”? Intendo dire, perché Giovanni Raboni ti pubblicò alcune poesie su “Paragone”? Come lo conoscesti?

F. Devo moltissimo a Raboni sul piano poetico perché nel 1978 mi pubblica su “Paragone” - che era la rivista più importante allora - senza nemmeno conoscermi. Gli avevo spedito delle poesie - tra l’altro non ero nemmeno in Italia - per cui inviai questo plico e lui senza nemmeno rispondermi pubblicò i miei testi prima su “Paragone” e poi in uno dei quaderni dei collettivi di Guanda. Lì uscì la mia prima raccolta nel 79. Conobbi Raboni quando uscì poi il libro, il redattore era Maurizio Cucchi che scrisse la nota introduttiva. Quindi, come dire, sono entrato dalla porta principale e forse ho anche avuto l’illusione che tutto fosse così semplice; invece non lo è, sono semplicemente stato fortunato, avevo trovato subito un grande interlocutore. Roboni è rimasto tale per me sino alla fine: ho una sua lettera del 2004 - che risale a due settimane prima dell’ictus che lo condusse alla morte nel giro di pochi mesi - in cui parla di “Guerra”, il libro mio poi uscito da Mondadori nel 2005. E lui mi dice che gli piace molto perché aveva avuto il dattiloscritto, ecco trenta anni dopo era ancora lui l’interlocutore… una lettera bellissima. E lui la scrisse senza sapere che era una delle ultime cose in assoluto che scriveva. Quindi a Raboni senz’altro riconosco questo debito e anche forse un debito di poetica più in generale, nel senso che ciascuno si crea la propria, ovviamente, di poetica, però una certa affinità con la linea, che poi Raboni stesso eredita da Sereni, se vogliamo, questo credo che sia realistico riconoscerlo. Poi Raboni scrisse anche la prefazione al mio libro I tre desideri che è uscito nel 1984 a Genova da San Marco dei Giustiniani. Insomma è stato molto generoso, non a caso ha tradotto la Recherche…

G. Raboni ha quindi subito riconosciuto il tuo valore…

F. Io posso dire di essere in qualche modo legato alla poetica prima di Sereni poi di Raboni. Sta ad altri fare questa deduzione che a me fa molto piacere.

R. La tua ultima raccolta, “Noi e loro”, Donzelli Editore, ha una semplicità di fondo ma al contempo un valore di contenuti e di stile, è proprio un libro eccezionale.

F. Grazie: è un libro che ha causato “mixed feelings” o “mixed reactions”. L’editore Carmine Donzelli era entusiasta del libro e anche le due figlie Marta e Elisa erano molto contente di pubblicarlo; poi ho avuto reazioni molto positive da persone che non mi sarei aspettato, come Giuseppe Conte o Alberto Bevilacqua che ha fatto un pezzo per il Corriere. Poi però è stato subito chiaro che se vai a toccare la suscettibilità dei cattolici in Italia - soprattutto in questa fase politica - ti scateni contro l’avversione di molte, troppe persone. Gente che magari ti era amica prima, quando la tua scrittura era meno… “netta”. Noi e loro è un libro un poco schematico nella struttura, nel senso che ha preso due figure: l’immigrato e l’omosessuale e ho cercato di farle interagire. E’ un libro che ha una sua costruzione quasi narrativa, se vogliamo. Uno lo legge e capisce che c’è un discorso anche culturale, sociale e politico, non soltanto poetico in senso stretto. E questo naturalmente, come dicevo, presta il fianco alle critiche più feroci da parte di persone che siccome sono irritate dagli argomenti, ma non possono dire di essere così retrogradi da provare fastidio per questi argomenti, e allora se la prendono con la poesia, che come al solito, poverina, non può difendersi. E’ chiaro che, siccome non sono nato ieri, sapevo benissimo che le reazioni sarebbero state di un certo tipo. Comunque la reazione peggiore è stata quella di ignorarlo. I più astuti e perfidi (e probabilmente omofobi) sanno che se comunque ne discuti puoi indurre qualcuno ad andarselo a leggere e allora da parte loro c’è stato proprio il silenzio e questa è la dimostrazione che ho centrato il bersaglio e ho dato fastidio.

R. L’oscurantismo?

F. Sì sì sì, conformismo e moralismo. Però era assolutamente previsto, anzi devo dire che mi aspettavo anche qualcosa di peggio: ma forse il conto non l’ho ancora pagato del tutto.

G. C’è stato il momento della scelta: pubblico o non pubblico?

F. no, questo no, semmai era pubblico dove e con chi. Nel senso che in origine questo libro doveva uscire da Guanda perché avevo fatto una piccola overdose di Mondadori con due libri nello Specchio a distanza di meno di cinque anni ed è impossibile pubblicare nello Specchio tre libri in sette anni. Avevo questi due libri nuovi pronti - uno è “Noi e loro” e l’altro è “Roma” che uscirà da Guanda nel giugno 2009. Allora, in un primo momento l’accordo con Donzelli era che io avrei fatto un Collected poems. Poi però avendo Noi e loro già pronto e avendo “Roma” che ormai urgeva, ho chiesto a Donzelli di sostituire il Collected poems - libro che posso fare in qualunque altro momento – con Noi e loro. Questo è un periodo molto fertile: vale la pena di assecondarlo. E qundi è andata così: Donzelli che doveva farmi un Collected poems mi ha fatto Noi e loro e il libro che dovevo fare con Guanda è diventato quello nuovo: Roma. Ma queste sono solo strategie editoriali: a me quello che importa è la poesia. Mi interessa che - comunque - arrivi qualche cosa di politico, di civile, anche dai libri di poesia.

R. In effetti la gente sta lontana dalla poesia perché spesso non si capisce niente, la gente apre un libro di poesia ma lo richiude perché non ci capisce niente, c’è un messaggio incomprensibile…che cosa ne pensi?

F. Ci sono stati due momenti storici in Italia che hanno portato a questa situazione, tu hai tradotto la vulgata, l’opinione corrente è questa. Il primo momento, anche altissimo, è stato il momento ermetico perché già la definizione stessa di ermetismo, che era stata data in negativo, per altro, ha fatto sì che per molti poesia cominciasse a significare qualche cosa di oscuro. Però c’era ancora il grandissimo carisma del poeta, per cui Montale, Quasimodo vincono il Nobel, Montale diventa senatore a vita in quanto poeta. Poi c’è stata la seconda fase che ha segnato proprio l’acme di questo discorso che stai facendo tu, che è stato quel connubio osceno tra la neoavanguardia degli anni Sessanta e il cosiddetto neo orfismo degli anni Settanta. La neoavanguardia che, per quanto si dica, è sempre basata sul pastiche, sul polilinguismo; e il neo orfismo che, molto astutamente, ha giocato su un termine storico della poesia, l’orfismo, e nei primi anni Settanta ha finito col consegnare l’oscurità a tutti coloro che si sono affacciati alla poesia nei decenni Settanta/Ottanta. Costoro avevano due modelli: da un lato Sanguinati, Balestrini, il manifesto di Giuliani, e dall’altro questa poesia esile e scarna detta neo orfica, magari schermata dal grande prestigio di Paul Celan. Ma Paul Celan può fare Paul Celan perché ha quel vissuto alle spalle: quando tu fai Paul Celan nascendo tranquillamente negli anni Cinquanta a Milano in una ricca famiglia borghese sei meno credibile. E questo è un po’ ciò che è avvenuto con una certa serie di autori… I giovani, il pubblico sorbirono il connubio di neo avanguardia e neo orfismo: non si doveva capire con la neo avanguardia, non si doveva capire col neo orfismo e le conseguenze sono quelle che hai descritto. Poi c’è anche da dire che uno dei grandi maestri, uno che secondo me è l’uomo, il poeta più intelligente d’Italia - Andrea Zanzotto - diciamo che non ha facilitato l’accesso. Uno sente il nome, lo sente circondato da un’aura diciamo di grande prestigio, compra un libro di Zanzotto, dopodiché pensa la poesia non fa per me. Anche questo ha portato… sono stati tutti elementi che si sono accumulati, mentre io sono dell’avviso… può anche essere riduttivo, però un lettore deve essere in grado di prendere un libro e di capirlo. Ovviamente il discorso è molto complesso. Io leggo Zanzotto come oggetto di studio, godo di quella intelligenza allo stato puro, ma se voglio leggere poesia per il piacere di leggere poesia, non lo posso scegliere. Ecco io ho scelto…anche se andando a vedere i miei esordi, se vado a vedere quello che scrivevo appunto nella seconda metà degli anni Settanta, quella raccolta che è uscita da Guanda nel ‘79 e ancora I tre desideri, è chiaro che in quella morsa tra neo avanguardia e neo orfismo c’ero finito in parte anch’io. Nessuno può dirsi estraneo al proprio contesto, estraneo al proprio tempo: è evidente che anch’io risentivo di quel clima, provavo un forte disagio di fronte a queste due correnti imperanti, ma quando sei giovane pensi che sia così che si debba fare. E’ soltanto con la maturità, è soltanto in questi ultimi decenni che ho capito perché allora fossi a disagio. Però poi è proprio attraverso le difficoltà che ci si forgia, per cui oggi sono ancora più deciso ad andare nella direzione che mi sono scelto. Che poi il linguaggio poetico, sia un linguaggio - per definizione - impegnativo e che per definizione un lettore di poesia debba leggere con concentrazione, mi pare evidente. E pure è evidente che la poesia o è questo, o non è.

R. Tornerei un attimo a “Noi e loro”. Come sai abbiamo recensito su larecherche.it il tuo libro, una breve scheda di presentazione per i lettori, abbiamo scritto: “E’ una raccolta di poesie scritte in modo completamente svincolato da inutili bigottismi. Buffoni tratta il tema della passione per l’uomo, avvicinandosi alla bellezza delle forme umane e toccandole, con sguardo poetico, in modo intelligente e rispettoso, smanioso dell’armonica bellezza delle fisionomie”. Che cosa ci puoi dire al riguardo? Che cosa è per te la bellezza? Come vedi l’umanità?

F. Lo scrivo anche nella nota finale a Noi e loro, mi sembra giunto il momento di estendere, di riguadagnare - pensando alle letterature classiche greco-latine e anche ad altre letterature pre-cristiane - di riconquistare al sesso omoerotico spazi che nella nostra tradizione sono stati quasi totalmente appannaggio dell’ambito etero. Anche se la poesia si è saputa lo stesso incuneare. Certamente non a caso i sonetti di Michelangelo dovevano cambiare il nome del dedicatario: insomma Tommaso de’ Cavalieri diventava una fanciulla perché non si poteva tollerare che il trasporto omoerotico fosse esplicito. Questo crimine della falsificazione del genere del dedicatario è una cosa che la letteratura si porta dietro e dentro. Oggi, tutto questo può essere guardato al passato. E lo dico da europeo, perché se dovessi sentirmi italiano, e guardare ai miei vicini dirimpettai di oltre Tevere (indica la finestra)… sono la più grossa accolita omosessuale che esista oggi al mondo… ma sono anche dei grandi ipocriti e riescono a inacidire la situazione italiana sul sociale e sul politico. Tanto più la classe politica è povera intellettualmente tanto più le pressioni vaticane diventano rilevanti. E’ chiaro che se avessimo maggiore dignità come classe politica non saremmo in questa situazione con i diktat vaticani su coppie di fatto, procreazione assistita, testamento biologico e quant’altro. Siamo in questo stato proprio perché soffriamo di questa miseria culturale da parte della politica in genere, e di chi ci governa attualmente in particolare. Io ho sempre nutrito speranza, voglio essere ottimista; non sono stupido, però cerco sempre di vedere the bright side of things e non quella scura. E la parte luminosa è l’Europa: Bruxelles, Strasburgo. Io mi sento europeo, tra qualche mese ci saranno le elezioni europee e il parlamento europeo in questi anni ha impartito molte direttive che l’Italia continua a disattendere specialmente nel campo dei diritti civili. Tuttavia siamo in Europa e io continuo a guardare verso Nord e a sperare. Mentre osservo questa tendenza delle destre a farci diventare “Vaticalia”: questo parlamento non ratificherebbe nemmeno la presa di Roma… no no, non lo dico per scherzo sono convinto di questo. Se abbiamo il monumento a Giordano Bruno a Campo de’ Fiori, è perché c’è stato un trentennio tra dopo la presa di Roma sino alla prima guerra mondiale in cui l’Italia è stato un paese laico e liberal-socialista con i cattolici fuori dalla politica. E’ stato l’unico periodo in cui si intitolarono le vie a Cavallotti, a Giordano Bruno, a Galilei, se no non li avremmo. Oggi nessuno si permetterebbe di fare un monumento a Giordano Bruno a Campo de’ Fiori. Dobbiamo esserne consapevoli, e dobbiamo dirlo alle nuove generazioni perché si rendano conto del momento storico che stanno vivendo. Che è poi il prolungamento, il singulto di ciò che sono stati i patti lateranensi, il concordato di Mussolini, la pietra miliare che ci ha regalato il clerico-fascismo. Dunque io mi aggrappo all’Europa in senso quasi letterale. Solo dall’Europa possono venire spiragli di speranza per gli italiani che credono che i diritti civili sono i diritti civili e non delle ipocrite questioni eticamente sensibili.

R. Grazie perché dici cose che fanno meditare e questa apertura verso l’Europa è molto bella.

F. Assolutamente, a parte che per vocazione avendo studiato all’estero mi sento fondamentalmente europeo, poi sono un lombardo di frontiera che vive a Roma; amare Roma è un fatto mio personale, amare l’Italia è un fatto mio personale, amare il Mediterraneo… però io mi sento cittadino europeo, voglio che l’Europa mi difenda da questo clerico-fascismo sempre più vischioso.

R. Ma tu politicamente…

F. Non sono mai stato marxista se è questo che vuoi sapere. Pur essendomi formato negli anni Settanta, avevo venti anni nel ‘68. A differenza di tanti altri che oggi fanno... diciamo che oggi militano in forze di destra, io sono sempre stato un libertario, un vero liberale, un radicale ecco, ho sempre lottato per i diritti civili: io mi affaccio al mondo adulto della politica con il referendum sul divorzio del ‘74, sono pulitissimo da questo punto di vista. Non sono il solito ex comunista che poi si ricicla a destra. Non ho mai avuto bisogno di cambiare nulla nella mia collocazione politica. Non perché sia statico, ma perché feci subito la scelta giusta. Ero compagno di università di Emma Bonino, per intenderci: come la vorrei presidente del consiglio a capo di una coalizione veramente socialista, come Zapatero in Spagna. Questo è tutto il mio estremismo: figurarsi!

R. Tu scrivi anche prosa. Nel 2006 hai pubblicato “Più luce, padre. Dialogo su dio, la guerra e l’omosessualità”, (Luca Sossella Editore); Aldo Nove su Liberazione, a proposito del libro afferma: “Essere di sinistra oggi vuole dire anche confrontarsi con un libro, se l’ineluttabilità delle questioni che mette in gioco lo rende quanto mai urgente. ‘Più luce, padre’ è infatti la più lucida riflessione su tematiche come la guerra, la religione e l’omosessualità (intesa anche come cultura del diverso) degli ultimi anni”. Sono parole importanti. Oggi, a due anni di distanza dall’uscita del libro, con gli eventi accaduti, politici e sociali, con le posizioni di questo governo e della Chiesa Cattolica contro i PACS, e l’omosessualità in particolare, è sempre valida l’affermazione di Aldo Nove? Il libro ha come sottotitolo “Dialogo su Dio, la guerra e l’omosessualità”, secondo te c’è una reale possibilità di dialogo con queste istituzioni forti oppure l’unico mondo aperto al dialogo, almeno all’apparenza, rimane quello della letteratura, dove ancora c’è spazio per il “diverso” di esprimersi?

F. Il libro parte dal fascismo storico perché mio padre - nato nel ‘14 - era un ufficiale dell’esercito italiano. Quindi io sono cresciuto in questo clima, mio padre aveva fatto la guerra e due anni di Lager in Germania per non aderire alla Repubblica di Salò. Era stato educato dal cattolicesimo nel fascismo e dal fascismo nel cattolicesimo. Il libro consiste in un dialogo con un ventenne di oggi, studente di scienze politiche, che mi chiama “zio”, sul nonno e sull’esperienza del nonno, dunque sul fascismo, sulla guerra, sugli anni cinquanta e sessanta. Quindi, nella seconda parte, discuto del presente con questo giovane, che è su posizioni no-global. E mi insulta molto, ma diciamo francamente, con affetto. Tu mi chiedi che speranze ci sono oggi in Italia? Questo Parlamento è talmente spostato a destra che difficilmente riuscirà a produrre qualcosa di sensato nell’ambito dei diritti civili… mentre nel Parlamento precedente sarebbe bastato qualche senatore in più e i Dico sarebbero passati. Oggi guardo alla maggioranza parlamentare nella sua miseria morale, nella sua povertà culturale, che rispecchia quella del popolo italiano…benché ormai la società civile è un po’ più avanti complessivamente rispetto a questo parlamento, ho questo sentore… Persino nella chiesa cattolica bisogna distinguere, le gerarchie vaticane sono quello che sono - oggi credo proprio il peggio del peggio, penso lo riconoscano tutti – ma molti preti in privato ti confermano di sentirsi profondamente frustrati e umiliati. Purtroppo, e qui devo dire l’infausto connubio tra oscurantismo cattolico da un lato e politica miope italiana dall’altro ha fatto sì che quel minimo di libertà che i preti avevano ancora all’epoca di Paolo VI oggi sia completamente scomparsa. E per un fatto tecnico. Perché fino all’epoca di Paolo VI i preti ricevevano la congrua, che era un piccolo stipendio, dallo stato italiano. Noi laici fummo contenti quando la congrua venne abolita: si pensò “i cattolici si mantengano i loro preti come è giusto che sia”. Invece saltò fuori la questione dell’otto per mille, il cui imbroglio è noto a tutti: fu notoriamente Tremonti - uno dei “Reviglio Boys” all’epoca di Craxi – il genio dell’otto per mille. Impedendo che la cifra possa essere destinata alla croce rossa o alla ricerca sul cancro, ma debba andare soltanto a una chiesa. E se un contribuente non la indica, come fa la maggioranza degli italiani, la chiesa che ha avuto più suffragi prende più soldi, e siccome la chiesa cattolica ha il 25% circa di persone che la indicano finisce che poi prende il 70% dell’introito totale dell’otto per mille. Ma l’imbroglio non si ferma qui, cioè al fatto che in questo modo la Chiesa Cattolica ha oggi più soldi di quanto non ne avesse all’epoca di PaoloVI cioè negli anni Settanta. C’è un dato molto più pericoloso sul piano politico: sono spariti i preti del dissenso che invece negli anni Settanta c’erano ancora. Perché? Perché mentre con la congrua versata dallo stato italiano i sacerdoti erano abbastanza liberi, oggi i soldi dell’otto per mille servono sì per mantenere il clero ma passano tutti attraverso la presidenza della CEI. E quella italiana è l’unica conferenza episcopale al mondo il cui presidente non viene eletto, ma viene nominato direttamente dal papa: infatti prima il presidente era Ruini, adesso è Bagnasco. E’ costui che decide la destinazione dell’otto per mille. Per cui questa enorme massa di danaro non solo può essere indebitamente usata per boicottare referendum democraticamente convocati - come accadde per la fecondazione assistita -, ma serve anche per soffocare qualunque dissenso interno, semplicemente riducendo alla fame chi non si allinea. Questo meccanismo è veramente perverso. Al primo punto del programma di un governo serio veramente socialista dovrebbe esserci la revisione e l’eventuale abolizione del concordato attualmente in vigore. E comunque la Chiesa Cattolica di errori ne ha fatti talmente tanti da sempre… la cosa curiosa è che quando si accorgono che una determinata posizione non conviene più tenerla e cambiano politica, impongono quella nuova come se fosse una loro trovata. Per esempio la pena di morte: è indicativo, se ti rivolgi a un giovane di oggi, casualmente, e gli chiedi chi è contro la pena di morte, ti dice i preti … ma i preti l’hanno abolita nel 1969 dal codice vaticano la pena di morte! Lo Stato pontificio non solo l’ha sempre praticata, ma l’ha tenuta nel proprio codice fino alla strage di piazza Fontana! Siamo stati noi laici, noi atei, a partire da Beccaria, che quando i preti mandavano sulla forca le persone, cominciammo a parlare “Dei delitti e delle pene” e chiedemmo e infine ottenemmo l’abolizione della pena di morte. Che oggi il Vaticano passi come il difensore dei condannati a morte, dal punto di vista storico è un nonsenso. Hanno sempre torturato, hanno sempre condannato a morte, ma almeno per pudore che tacciano, invece parlano. Parlano basandosi sull’ignoranza di chi li ascolta, ignoranza proprio in senso etimologico… Soprattutto quando la classe politica è così inerme e pavida… Se avessimo Gaetano Salvemini, se avessimo ancora certi uomini della Resistenza, non potrebbero permettersi di essere così ipocriti, invece abbiamo chi sappiamo.

R. Quali saranno le tue prossime pubblicazioni?

F. Questo libro qua che si chiama “Roma”, e che è finito e andrà in bozze in novembre da Guanda e uscirà a giugno del 2009 però forse non è il caso che ti racconti questo libro perché…

R. Due parole per dirci cosa c’è dentro…

F. E’ il mio rapporto con Roma, il rapporto di grandissimo amore con Roma che ha un non romano, ecco questa potrebbe essere una definizione e per poterla storicizzare in modo diacronico e sincronico assieme io mi sono basato su altri che amo particolarmente e che in passato hanno avuto la stessa storia, cioè hanno abitato, sono vissuti, sono morti magari a Roma, hanno sofferto hanno goduto a Roma ma non erano romani e allora ne ho scelti alcuni che particolarmente mi stimolavano per ragioni poetiche, non necessariamente poeti, coi quali nel libro intesso un dialogo, attualizzando in qualche modo la loro presenza. Attualizzo nel senso che vedo riflesso nel mondo attuale le loro istanze. Per intenderci, ci sta Caravaggio, ci sta Leopardi, ci sta Galilei, l’inizio è pasoliniano e il finale è penniano, nel senso che sono quelli i personaggi, nella Roma degli anni Cinquanta-Sessanta all’inizio del libro è dominante la figura di Pasolini; nella Roma degli anni Trenta-Quaranta che c’è alla fine del libro, è dominante quella di Sandro Penna. Anche se non li nomino però è evidente l’intonazione, il dialogo che è in corso. Nel centro del libro trovi Leopardi e Keats che erano contemporanei. Keats venne a morire qui a pochi metri da dove siamo adesso, a piazza di Spagna, e Leopardi, quando parla di questi fiori gialli che cingon la cittade, oltre che alle pendici del Vesuvio, si riferisce a Roma. E’ attraverso queste ginestre che cingevano le paludi pontine che passa la carrozza di Keats per giungere a Roma. Keats stava già molto male e in quel momento in carrozza è vittima di un’epifania. Nel senso che vede un cardinale vestito da cardinale, che imbraccia il fucile e spara agli uccelli. L’autore della “Ode to a Nightingale”, l’ode a un usignolo, riceve questo saluto da Roma: lo sparo all’usignolo da parte di un cardinale. Questo episodio si trova nell’epistolario di Keats, non me lo sono inventato. Nel frattempo ho pensato al passaporto di Leopardi. Leopardi è un suddito della Reverendissima Camera Apostolica – come allora si chiamava il governo vaticano. Quando contino Giacomo giunge a Milano dall’editore Stella ha in mano il passaporto dello stato Pontificio. Poi in un’altra sezione di ROMA c’è Galilei quando scopre i satelliti di Giove, qui sopra il Gianicolo dove adesso è l’American Academy. Galilei piazza il suo cannocchiale sulle mure aureliane, sopra quello che è oggi l’orto botanico. E lì c’era ancora, e ci sarebbe stato fino alla presa di Roma, il bosco Parrasio. Gli arcadi erano monsignori, cardinali, e questi parlavano versificando, l’ultimo custode dell’arcadia è stato Agesandro Tesporide, avevano tutti nomi grecizzanti, al secolo era ciociaramente Monsignor Ciccolini. Quindi questo contrasto tra Galilei che vede il futuro e questi che invece facevano gli arcadi, con le pastorellerie e con tutto il trito, ipocrita, modo che si supponeva dovesse essere quello del poeta tra virgolette, ecco questo contrasto è l’oggetto della mia poesia. Poi noi sappiamo la fine che ha fatto Galileo perché questa gente è ipocrita ma è anche piuttosto cattivella quando ci si mette. Ecco adesso ti ho raccontato alcune delle situazioni che nel libro prendono corpo, sono tutte situazioni romane; e guarda caso i poteri di cui si parla nel libro sono sempre gli stessi poteri e quindi ecco che io divento ancora più feroce oggi e sono ancora più contento di avere Bruxelles e Strasburgo a cui guardare. Mentre il povero Leopardi che doveva andare in giro con quel passaporto non era difeso, lui non poteva dire “però ho i miei diritti, ho il tribunale di Strasburgo”… Ah volevi che ti leggessi una poesia…

R. Quella su Galileo…

F. L’unica cosa è che la devo pescare, essendo un libro ancora in bozze non ho dimestichezza, volevo trovare un punto con i personaggi che ho menzionato.
Ecco questa sì, è anche uno dei testi più prosastici del libro, la zona è quella leopardiana. Qui c’è un’epigrafe tratta da una lettera di Leopardi a Luigi de Sinner: “La mia filosofia”, scrive Leopardi, “è dispiaciuta ai preti, i quali, e qui, e in tutto il mondo, sotto un nome, o sotto un altro possono ancora e potranno eternamente tutto”. L’ha scritto Leopardi. Questo invece l’ho scritto io:


Di Leopardi che ritorna col pensiero a Roma

Dalle pendici del Vesuvio: “Anco ti vidi

de’ tuoi steli abbellir l’erme contrade

che cingon la cittade”. Desolazione per desolazione,

Naturale per intellettuale, deserto per deserto…

Di Leopardi suddito dello stato pontificio

Liberale clandestino in ideologico isolamento

- Il ridicolo e il grottesco delle Operette

Per eccellenza armi illuministiche

Contro antropocentriche metafisiche -

In quell’angusto regno del silenzio

Dalle mostruose tipologie censorie

Che fu il governo della

Reverenda Camera Apostolica.

Roma desertica.


Ricordo che questa poesia è piaciuta molto a Valerio Magrelli, che è uno dei miei più cari amici e che ha letto tra i primi questo libro… mi disse: “ci sento Belli qui dentro, ci sento Belli” e sì probabilmente… ne vuoi un’altra? … ecco… Questa è quella su Galilei, però ti devo leggere qualche verso della poesia precedente quindi questa che leggo all’inizio è la parte finale della poesia precedente:


Sono nere rotonde

Ben pressate le ombre della cornice

Alla parete: coppie di sante sulle trabeazioni

Bernini da par suo inseriva

Realizzando cantorie.

E quando guardo questa statua, il suo

Marmo debordante,

Vedo in ginocchio il vecchio Galilei

Dinanzi ai cardinali tronfi e bolsi.

++

E la sera dei santi Abbondio e Procolo

Il quattordici di aprile

Per osservare il cielo dalle Mura

Galileo salì col telescopio sul Gianicolo.

Proprio da sopra il Bosco Parrasio

- Vasca in marmo a quadrifoglio, con al centro

Due tritoni in travertino

Distesi sul fianco a sorreggere

Fiori e frutta, dal canestro

Fuoriesce uno zampillo -

Scoprì i satelliti di Giove dimostrando

Del sistema solare la struttura.

L’albero di Giuda cresce ancora lì attorno

Tra sempreverdi alloro e fillirea, e in aprile

Presenta un’intensa fioritura color porpora

Intonata alle vesti di Agesandro

Tesporide, al secolo Monsignor Ciccolini,

Arcade e custode del Bosco.


Sull’ultimo numero di Nuovi Argomenti ce ne sono quattro o cinque come anticipazione, altre se ne trovano sul mio sito www.francobuffoni.it, poi guarda sono qui ancora coi foglietti e con i versi da inserire è un libro su cui sto lavorando ancora. Questo per quanto riguarda la poesia, mentre per la prosa il libro nuovo s’intitola Zamel, è appena stato finito, lo sto rileggendo, circolerà dal mese prossimo sul tavolo di qualche editore, non so ancora dove uscirà e con chi, però penso che nel corso del 2009 uscirà. E’ una storia gay, ambientata in parte nel Maghreb, ed un libro a cavallo tra narrativa e saggistica, una sorta di storia del movimento omosessuale dialogata. Ma c’è anche un delitto, purtroppo. Purtroppo perché l’episodio è realmente accaduto.

R. Quindi prosa e poesia, bene, quando sarà il momento leggeremo e commenteremo

F. Sono convinto che Più luce, padre sia molto impegnativo da leggere, mentre Reperto 74 è un romanzo breve con dei racconti, insomma è una cosa molto più facile da leggere e lo può leggere chiunque, mentre “Più luce, padre” contiene anche parti di riflessione filosofica. Più luce, padre è il libro che io dovevo scrivere nel senso che sentivo di dover dare questa testimonianza e per me è stato proprio un po’ un punto di arrivo… parlo della prosa, ovviamente. Quando ho finito Più luce padre ho capito che ciò che per me era essenziale dire in prosa lo avevo detto. Adesso – avendo ancora vita – continuo…

R. In discesa…

F. Sì! … o comunque un po’ più leggero, mi sono “sgravato”…

R. Sappiamo che sei fondatore, direttore e responsabile della rivista “Testo a fronte”

F. Che festeggia quest’anno il ventennale della fondazione perché la rivista esce dall’89. A Milano all’università IULM l’11 di novembre si è tenuta una giornata di studio per ricordare il ventennale di Testo a fronte e i suoi 40 numeri: perché è un semestrale che non ha mai perso un numero.

R. Infatti è famosa anche per questo: non ha mai perso un numero perché di solito le riviste ogni tanto saltano un numero…

F. …e non ha mai fatto un numero doppio, si è un punto d’orgoglio, di conseguenza io non ho mai fatto le ferie per vent’anni, ma questo va da sé…

R…e appunto edita da Marcos y Marcos di Milano; quindi in poche parole - detto in modo molto semplice - si occupa di traduzione…

F. Teoria della traduzione sì, io ho tradotto, sono usciti i miei poeti romantici inglesi da Mondadori nel 2005 (32 autori antologizzati) e… traduco poesia, è uscito un quaderno mio di traduzioni nel ‘99, Songs of Spring da Marcos y Marcos. Adesso ne ho pronto un altro, quindi, diciamo, il mio ambito di studio è la teoria della traduzione, teoria della traduzione letteraria, la traduttologia.

R. In due parole ci spieghi che cosa si intende per traduttologia?

F Il termine traduttologia è stato riconosciuto dal ministero dei beni culturali che è sempre più frizzantino mentre il ministero dell’università e della ricerca scientifica la chiama ancora “teoria e storia della traduzione”, quindi “traduttologia” è un termine “borderline”: è un calco sul francese traductologie; in Germania si parla invece di Uebersetzungswissenschaft da almeno un secolo, e sarebbe scienza della traduzione; in inglese invece in modo molto più anodino, come sempre, si parla di translation studies. Per quanto riguarda la nostra posizione teorica, siamo convinti che la traduzione letteraria e di poesia in particolare, prima che un esercizio formale, sia un'esperienza esistenziale intesa a rivivere l'atto creativo che ha ispirato l'originale. Naturalmente non si pretende di ignorare l'immenso patrimonio scientifico che decenni di speculazione in ambito formalistico, strutturalistico e semiotico sono in grado di fornirci. Tuttavia è innegabile che nei decenni scorsi l'assoluta egemonia di tali discipline mise in ombra e talvolta irrise alla possibilità di riflettere su tematiche di ordine traduttivo nell'ottica della filosofia estetica. Testo a fronte intende continuare a porsi al centro del dibattito tra i due ambiti, nella convinzione che non possa esistere teoria senza esperienza storica; accettando quindi anche gli assiomi della linguistica teorica, ma soltanto se in costante rapporto dialettico con le teorie generali della letteratura e dell'ermeneutica filosofica. Fondamentale, per noi, è il riconoscimento di dignità artistica per il testo tradotto, in virtù del quale viene anche valorizzato il momento della ricezione, ovvero della risonanza culturale che una traduzione - in quanto testo autonomo - sortisce sul pubblico. A questo punto sono destinate a cadere le classiche antinomie "fedele/infedele", "letterale/libera", "fedele alla lettera/fedele allo spirito", "contenutistica/stilistica" ecc. perché sono costruite sull'equivoco che da un lato consegna la poesia al dominio dell'ineffabile (e quindi dell'intraducibile: questa - in sintesi - era la posizione crociana) e dall'altro considera veicolabile soltanto un contenuto: che è pura astrazione. Comunque se a qualcuno interessa l’argomento, è uscito nel 2007 un mio libro che si intitola Con il testo a fronte dall’editore Interlinea di Novara, sono 250 pagine, e lì c’è quasi tutto quello che so sulla traduttologia, sul tradurre poesia, sui poeti che traducono e su quelli che vengono tradotti.

R. L’ultimissima cosa, questa intervista è per larecherche.it che è un sito di vari autori non professionisti, cioè persone che hanno dentro di sé una necessità di scrittura e la esprimono scrivendo, anche su larecherche.it, in maniera molto semplice e spontanea i loro testi, alcuni sono più elaborati, con una forma stilistica ben definita, altri sono totalmente spontanei. Tu cosa pensi di queste scritture “on line” in cui c’è un confronto tra persone, hai qualcosa da dire al riguardo?

F. Io sono assolutamente contento che esistano perché se penso a com’era la situazione quando ero giovane io, alle difficoltà che si incontravano nel leggere e nel farsi leggere, oggi tutti possono leggere tutto e dappertutto: questo mi sembra un vantaggio enorme. Forse lo può apprezzare maggiormente chi ha provato l’altro sistema, chi si è formato in un’epoca pre-informatica. Io sono uno che ogni volta che accende quell’affare lì (il PC ndr) è felice, perché mi ha semplificato la vita. Anche scrivere un libro di narrativa è quasi divertente oggi, è riposante con il computer… invece un ragazzo che comincia oggi… per lui il computer è la normalità: non si rende conto della grande fortuna che ha. Penso che questo lo si possa dire anche per la luce elettrica o per l’acqua calda in casa, insomma noi diamo per scontato che ci siano ma c’è stato un momento in cui hanno semplificato e reso gradevole la vita alle persone. Sono il solito illuminista. E quindi ben venga l’informatica, ben venga perché è un mezzo per mettere in contatto le persone, per farle parlare. Poi è chiaro che l’arte si sa, l’arte costa fatica e costa difficoltà quindi in un contesto dove i controlli sono solo operativi è evidente che ci trovi di tutto. Però io sono convinto che questo faccia democrazia, faccia socialità e, alla lunga, faccia anche cultura. Sono favorevole e peraltro penso che anche il futuro della poesia sia lì insomma, il futuro della poesia contemporanea è ovvio che sarà sempre più basato sulla rete; anche i giornali che ancora oggi compriamo saranno sempre più un retaggio del passato. Oggi mi emoziona molto il fatto che io possa avere un sito dove posso inserire molti testi; come dicevo ci trovi già anche l’anticipazione di Roma. Inoltre il blog della cui redazione faccio parte che è Nazione indiana ha pubblicato un’altra anticipazione di Roma, poi la seconda anticipazione l’ho data a Nuovi Argomenti, ma la prima anticipazione l’ho messa in rete, e quella anticipazione è già nel mio sito per cui anche io uso, lo uso insomma, uso questo metodo. Dicevo che per me è una bellissima emozione pensare che un ragazzo della Valtellina, uno del Salento, se amano queste cose, possono con una minima spesa, leggere. A questo punto è solo una questione di desiderio e di volontà, mentre prima uno doveva andare a cercarsi la libreria a Sondrio o a Lecce con una certa difficoltà per trovarsi un libro. Mi sembra che oggi le potenzialità siano enormi: io vorrei avere 20 anni solo per vedere quante altre potenzialità ci saranno nel prosieguo del secolo, perché mi entusiasma… Sono veramente innamorato della scienza e delle sue applicazioni: è una cosa che proprio mi commuove vedere l’intelligenza che si sviluppa e che produce cose che poi semplificano la vita e la rendono più gradevole, quindi mi interessa la scienza in tutti i campi, dalla medicina, alla biologia, alla fisica e poi, naturalmente, si fa poesia… però io fondamentalmente ammiro gli scienziati.

G. Quali sono le tue letture?

F. Di poesia? Ammiro Zanzotto ma non riesco ad amarlo; se devo leggere un poeta che mi piace, dell’epoca di Zanzotto, scelgo Caproni o Cattafi… però io non leggo poesia in modo preponderante: leggo moltissima saggistica, e narrativa molto con discrezione. La leggo però non sono uno che si tuffa nella narrativa facilmente, forse perché negli anni della mia formazione ho avuto la fortuna di leggere i testi fondamentali della narrativa europea cioè mi sono letto Proust, Thomas Mann, Kafka, Joyce, Musil, tutti tra i sedici e i venti anni ecco, ma perché sono stato fortunato, perché forse avevo qualche suggerimento giusto e quindi è evidente che poi tutto il resto in narrativa è stato un po’ in discesa, nel senso che i grandissimi li avevo già letti. Poi fai altre tue scoperte, però direi che tra narrativa, saggistica e poesia, il genere letterario che uso frequentare maggiormente è quello della saggistica. Infatti anche i libri di narrativa che scrivo hanno una bibliografia e un indice dei nomi. Lo capisco che è abbastanza anomala come situazione però se prendete Più luce padre vedete che alla fine la bibliografia vi serve. Anche se il libro è di narrativa l’aggiunta dell’indice dei nomi e della bibliografia mi sembra un dato di onestà intellettuale: un consegnare al lettore le chiavi della tua biblioteca. Ecco io la penso così anche perché io non amo la narrativa di invenzione. Nell’ultimo libro in prosa – Zamel - la nota finale chiude con una riga che dice esattamente così: “La mia nuova non-fiction novel rispecchia il proposito non di inventare storie verosimili ma di raccontare la realtà come se fosse una storia verosimile”.

R. Domanda a bruciapelo: hai letto “La solitudine dei numeri primi”?

F. Sì, direi che come sempre avviene quando su un libro si concentra una attenzione enorme, quando un libro ha successo, salta fuori il birignao dell’intellettuale che storce il naso. Giordano è un bravo scrittore di racconti, così giovane è un bravo scrittore di racconti, ci sono due bei racconti in quel libro. Leggendolo, appena pubblicato, pensai: crescerà poi magari scriverà un bel romanzo. Ecco questa è stata la mia reazione. Poi vedere tutto il battage che si è creato su questi due racconti mi è sembrato un po’ eccessivo rispetto al prodotto in sé, però il mio giudizio sullo scrittore è positivo. Capisci cosa voglio dire, dopo mi ha un po’ spaventato l’enfasi che si è creata attorno al libro. E’ chiaro comunque che se un ragazzo mi dice voglio leggere un libro bellissimo, gli consiglio Il giovane Toerless di Musil, per esempio o Tonio Kroeger di Mann. Così, per fare partire anche lui dall’alto, come accadde a me. Comunque, per chiudere su Giordano, è un libro intrigante, e visto che l’Italia ha questa mentalità antiscientifica o a-scientifica, se grazie a lui, almeno qualcuno in più saprà cos’è un numero primo non è un danno.

R. Io ti ringrazio perché è un’ora e un quarto che stiamo qua…

F. Ma guarda che io vado avanti ancora…

R. Torniamo, non c’è problema, intanto leggo questi due libri e poi torno…

F. Mi sei simpatico perché insegni fisica… però quelle cose che ti ho detto sulla mentalità a-scientifica degli italiani - o addirittura antiscientifica - le ho scritte anche in Più luce padre. Dopo che hai letto ne riparliamo.

R. Sì, sicuramente c’è molta ignoranza lo vedo anche a scuola i ragazzi veramente non hanno passione per lo studio.

F. Molti si riempiono la testa con quella paccottiglia che va dagli oroscopi alle messe nere: un disastro. La sotto cultura clerico-fascista produce a sua volta altra sotto sotto sotto sotto cultura...

R. Sì c’è da riportare un po’ di passione per la scienza, per la ricerca…
F. nei paesi civili dell’Europa occidentale è un paio di secoli che questi discorsi si fanno, noi abbiamo avuto delle remore che stiamo pagando carissime. Siamo una nazione a-scientifica se non addirittura antiscientifica e questo a causa anche di personaggi – e ministri della pubblica istruzione - come Benedetto Croce.

R. e G. Grazie.

 Alessandra Armani - 04/10/2010 18:42:00 [ leggi altri commenti di Alessandra Armani » ]

Un’intervista illuminante sul poeta, sul narratore, sul traduttore di poeti, ma soprattutto sull’uomo ricco di cultura e direi quasi umile nel parlare di sé. Piace la schiettezza nell’affrontare argomenti che fanno rabbrividire i bigotti e gli ipocriti.
Alessandra Armani

 greta - 23/12/2008 18:08:00 [ leggi altri commenti di greta » ]

Più che un’intervista, mi sembra un meraviglioso e poderoso affresco.
Bravi, avete saputo toccare con il modo giusto le corde di questo autore.

Mi sento veramente in linea con lui quando dice che il nostro paese sta diventanto "Vaticalia" e che oltre il tevere c’è il più grande gruppo organizzato di omofobici e omosessuali.
Mi è piaciuta molto la sua posizione di ponderato anticonformismo.

 Ignazio - 18/12/2008 19:44:00 [ leggi altri commenti di Ignazio » ]

Una intervista molto bella... Mette in luce sia il grande poeta sia il grande uomo dalle idee chiare!

 Daniele Incami - 18/12/2008 19:42:00 [ leggi altri commenti di Daniele Incami » ]

Beh! Una intervista molto importante, ampia.

 Basilio Romano - 16/12/2008 21:29:00 [ leggi altri commenti di Basilio Romano » ]

Una intervista molto molto molto bella, di ampio respiro, una persona dalle idee chiare e di vasta cultura storica, sociale, filosofica.

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